Un incontro con Ozlem Tanrikulu (Uiki Onlus) i Tommaso Baldo per ricordare Sakine Cansiz

(prima parte) di Gianni Sartori

Città in caduta libera quella “del Palladio”. Ancora una volta precipitata nell’abisso di una amministrazione di destra e dove poche realtà appaiono in grado di alimentare la fiammella residua di una – meritata – Medaglia d’oro alla Resistenza.

Un breve riepilogo. L’anno scorso, in settembre, piombava come un macigno la notizia dell’improvvisa scomparsa di Olol Jackson, un compagno attivo da decenni in difesa dei diritti umani, civili e sociali e dell’ambiente, figura trainante di tutta la lunga e significativa esperienza del Presidio No Dal Molin contro l’ennesima base militare statunitense.
Per dare continuità al suo impegno (totale, assoluto, una scelta di vita…), amici e compagni di Olol hanno avviato in quel di Vicenza un progetto per ampliare e sviluppare diritti, cultura, salute e sport.
L’associazione CARACOL OLOL JACKSON ONLUS è sorta per “offrire un sostegno culturale, sanitario e sociale nei nostri territori”. Obiettivo non da poco.
E spiegano: “Una decina di anni fa avremmo sviluppato un progetto di questa natura in Chiapas, in Palestina o in Kurdistan, oggi invece sentiamo la necessità di realizzarlo qui a seguito dell’aumento vertiginoso delle diseguaglianze”. Un segno premonitore dei tempi bui che incombono. Il nome “Caracol” si ispira chiaramente al Messico zapatista e “richiama proprio la costruzione quotidiana di istituzioni alternative e welfare dal basso, verso un modello di sviluppo sociale ed economico costruito su basi mutualistiche”.
Tra le iniziative – in parte già avviate, altre in progettazione – il torneo di calcio a 5 dedicato a Olol; “I sentieri del Caracol” (percorsi – a piedi si auspica – nella zona della “Gogna”); il festival “L’arma della memoria” (incontri e dibattiti sulle innumerevoli e variegate Resistenze all’arroganza del Potere); una biblioteca; un auditorium; l’archivio storico dei movimenti sociali vicentini (dove conservare la memoria storica delle lotte); una sala espositiva; aule-studio (per ospitarvi seminari, eventi, laboratori di promozione artistica e culturale)…

UNA CITTA’ CON PIU’ SALUTE E CON PIU’ SOCIALITA’
E ancora: sportello informativo socio- sanitario (entro il 2018, con il contributo di Emergency); ambulatorio medico solidale; consultoria; palestra (Yoga, Tai Chi…), sale dedicate alla promozione di stili di vita corretti e salutari.
Il tutto in quei determinanti e indispensabili “300 mq di sostegno al cittadino per accedere al servizio del territorio” perché “alla città di Vicenza serve un luogo per imparare a ripensarsi e rivedersi solidale e sociale (…) uno spazio conviviale dove coltivare relazioni e costruire comunità” ospitando anche altre associazioni che condividono i principi di Caracol. Uno spazio che si intende acquistare attraverso la raccolta di fondi e l’accensione di un mutuo.

Insomma, una pioggia, una cascata di idee, un cangiante arcobaleno per colorare il grigiore urbano dispensato a piene mani da amministratori e confindustriali. La posta in gioco è alta.

Ne riparleremo.

LA COMMUNE, KRONSTADT, ROJAVA…LA LOTTA CONTINUA

In tale contesto non poteva mancare l’attenzione per l’esperimento attualmente più avanzato nella (ri) costruzione di rapporti sociali solidali, socialisti, consiliari, antiautoritari e anticapitalisti.
Di portata non inferiore a quelli storici della Commune (1871), Kronstadt e Macknovicina (1921), collettivizzazioni autogestionarie di Catalunya e Aragona (1936-37…).
Ovviamente si parla dell’esperienza costruita giorno per giorno dai curdi e dalle altre popolazioni che abitano Rojava, Bakur, Rojhelat e Basur (le quattro regioni storiche del Kurdistan, Nazione senza stato).

Il 15 settembre – nel contesto del Festival della Vicenza Libera – il “Bocciodromo” di via Rossi (quartiere dei Ferrovieri) ha accolto Tommaso Baldo e Ozlem Tanrikulu (di UIKI Onlus) per la presentazione del terzo volume della biografia di Sakine Cansiz (Sara) “Tutta la mia vita è stata una lotta”.

Assassinata a Parigi nel 2013 da un sicario (manipolato dai servizi segreti di Ankara) Sakine Cansiz – tra i fondatori del PKK – rappresenta una delle figure rivoluzionarie più importanti della storia recente. Nei due volumi precedenti aveva narrato la sua infanzia a Dersim, la faticosa costruzione del movimento di liberazione curdo e la sua detenzione nelle galere turche.
In questo terzo volume ha raccontato gli anni trascorsi – dopo il rilascio dal carcere nel 1990 – in montagna, nella guerriglia.

Come ha spiegato Tommaso Baldo “l’inizio non è stato Kobane, quella della lotta di liberazione del popolo curdo è una storia antica”. E non basta nemmeno “risalire alla fine degli anni novanta, con il sequestro di Ocalan in Kenya e l’inizio della sua interminabile segregazione”.
Ricordo che l’origine del PKK risale agli anni settanta (ufficialmente al 1978) ma Ocalan e altri compagni, sia curdi che turchi, erano già attivi da almeno un decennio. La lotta armata – una risposta di autodifesa dopo gli arresti, le torture, le esecuzioni extragiudiziarie – inizierà solo tra il 1982 e il 1984. Dalla biografia di Sakine Cansiz emerge come la sua maturazione personale si sovrapponga e si confonda, si integri con quella collettiva di tutto un popolo. Ricordava una sorta di “parapiglia” davanti a un negozio a cui le toccò assistere da bambina. Intervenne la polizia, malmenando e picchiando tutti i presenti. Ma in particolare un giovane, apostrofandolo come “sporco comunista”. E lui che di politica in generale – e di comunismo in particolare – non si era mai interessato, una volta sortito di galera assunse tale identità con orgoglio, cosciente ora della propria condizione di oppresso.
Naturalmente non mancavano “contraddizioni in seno al popolo”, in particolare quelle legate a una tradizione patriarcale. A tale proposito Baldo ha rievocato un altro episodio riportato dalla biografia della militante curda. Alla conclusione dei lavori per la fondazione del PKK, un compagno intervenne con una richiesta quanto mai fuori luogo: “Bene, ora ragazze mettete su il tè”. Pronta la risposta: “Il tè puoi anche preparartelo da solo…”.
Nel secondo volume – continuava il relatore – Sakine ha rivisitato soprattutto l’esperienza del carcere, con una particolare attenzione per l’aspetto umano. Baldo ha anche fatto un raffronto con altri testi (di “formazione” li ha definiti) come gli scritti di Paietta sul carcere (presumo si riferisse a “Ragazzo rosso”) dove invece la dimensione politica esercitava una forte egemonia.
Già negli anni ottanta (ormai in pieno regime fascista) nelle galere turche si praticava un uso repressivo della componente religiosa, dell’islamismo, con un vero e proprio sistematico “lavaggio del cervello” utilizzando divise, obbligando a cantare inni sciovinisti (un’analogia evidente con le galere spagnole al tempo dei franchismo), torture e quant’altro per disciplinare e sottomettere ulteriormente i prigionieri.
Un tentativo sostanzialmente fallito per l’eroica resistenza dei militanti incarcerati che in molti casi arrivarono al “suicidio di protesta” per fermare la deriva autoritaria.
E in questa opposizione alla politica carceraria il ruolo di Sakine divenne fondamentale. Entrata in carcere prima della scelta armata del PKK, Sakine ci rimase per dieci anni. Poi si integrò nella guerriglia.
Ozlem Tanrikulu ha ripreso il discorso ricordando che “siamo qui nel ricordo di Sara (nome di battaglia di Sakine nda), per contrastare ogni violenza esercitata nel mondo: sessismo, patriarcato, capitalismo, saccheggio ambientale”.
La decisione di tradurre – e pubblicare – anche l’ultimo volume della biografia non era scontata (Sakine non ha avuto il tempo di rivederlo e correggerlo come gli altri due). Così come non era stato facile per lei scriverla dato che in genere le biografie dei militanti vengono redatte dopo la loro morte. In genere non si ha tempo di raccontare, di scrivere fintanto che si vive e si lotta. Sakine ha scritto soprattutto nel ’96, mentre era sulle montagne – su precisa richiesta di Ocalan che lei aveva voluto incontrare nuovamente dopo essere uscita dal carcere. Il manoscritto non era stato pubblicato subito. Solo in seguito, quando era in Europa e faceva parte del Congresso Nazionale Curdo (KNK), il movimento aveva deciso che andava pubblicato. Anche se lei non ci teneva, non amava il protagonismo.
Diceva di essere “soltanto un elemento, una parte della lotta collettiva”.
Era nata a Dersim, una località teatro di un eccidio storico contro la popolazione alawita, una minoranza religiosa. L’oppressione da lei subita era stata molteplice: in quanto donna, curda, alawita…
Da piccola a scuola – ricordava – talvolta si vergognava della sua identità e come tutti i suoi coetanei curdi subì una sistematica opera di forzata assimilazione (vedi l’imposizione della lingua turca), una tentata trasformazione dell’identità.
Poi conobbe il lavoro di fabbrica e quindi le contraddizioni sociali, avvicinandosi alle organizzazioni di sinistra. Entrando a far parte del PKK, cominciò a lavorare soprattutto con le donne e con i giovani (con tutta evidenza i soggetti trainanti nella neonata organizzazione, portatori di una nuova mentalità), ma sempre insieme anche ai turchi. Venne arrestata nel 1979 vivendo in carcere una fase molto pesante per l’intero movimento. Tutti i maggiori esponenti, i fondatori, erano dietro le sbarre e subivano torture (ma lei non cede al vittimismo, non si autocommisera; nel libro ne racconta solo una). La vittimizzazione non rientra, non è un metodo della resistenza curda.
Lei fa parte di quelle persone che hanno saputo resistere, consentendo la ripresa di un movimento che dura tuttora. In compenso parla dei progetti e tentativi di evasione.
Sara fu la prima donna a essere arrestata. “Ne parlo – ha voluto sottolineare Ozlem – in quanto figlia di un prigioniero politico, anche lui rinchiuso nel carcere di Diyarbakir. Noi siamo cresciuti sapendo di una prigioniera del PKK – Sara – che anche quando molti maschi cedevano, svendendo talvolta la loro dignità ai torturatori, lei con il suo esempio insegnava a resistere, a non mollare. Già allora – per rispetto al suo coraggio – tenevamo una sua fotografia in casa, in quanto donna resistente e voce del movimento di liberazione”.
Da tempi immemorabili il carcere è un luogo preposto al genocidio – sia fisico che morale e culturale – di una popolazione. Sia torturando direttamente che con la “tortura bianca”, l’isolamento, la deprivazione. Allo scopo di annichilire i prigionieri, cancellarne coraggio e dignità.
Con la loro resistenza tenace Sara e le altre compagne hanno saputo proteggere il movimento.
Va detto che c’è stata una resistenza potente – di almeno 40 anni – da parte delle donne curde, sia quelle incarcerate, sia nelle metropoli e nei villaggi. Un movimento che non ha avuto ancora adeguato riconoscimento. A Kobane, semplicemente, si sono visti e colti i frutti di tale movimento che, letteralmente, ha lottato per l’umanità. Anche se poi, in parte almeno, è stato manipolato, svuotato dalla società dello spettacolo (la retorica sulle belle ragazze curde, le guerrigliere truccate…). Sia chiaro. Il solo fatto di imbracciare le armi non implica di per sé una autentica liberazione; per le donne curde ha rappresentato una necessità. Ci spiega Ozelem: “noi diciamo che per l’autodifesa anche le madri prendono il fucile. Non per militarizzare il movimento, ma per tutelare, garantire la possibilità di una vita sociale libera, equa, fondata sul rispetto reciproco, sull’empatia”.
Ma combattere non è sufficiente. Occorre responsabilizzare tutti: le madri, i bambini…imparare che le differenze sono una ricchezza, non devono diventare fonte di divisione.
Ozlem è convinta che in Europa “si vede il medio-oriente come una terra di congenito conflitto. In realtà non è così. A mio avviso, nonostante le guerre messe in campo dagli stati, c’è una grande capacità di convivenza e socialità”. A conferma, il modo in cui anche in Turchia le donne hanno saputo costruire le assemblee popolari, creare organizzazioni per coinvolgere intellettuali e accademici, scrittori e registi in quella che viene denominata”Piattaforma Democratica”. Paradossalmente possiamo affermare che al momento in Turchia un’autentica società democratica esiste, ma in gran parte è dentro alle prigioni. Mentre fuori dilaga la repressione e il nuovo fascismo. Quella turca è una società sostanzialmente in crisi (vedi il gran numero di disertori dall’esercito, il sempre maggior numero di persone ridotte in povertà…). Un sistema nel caos totale, potremmo dire, anche per il permanere di una mentalità repressiva e patriarcale. Quella stessa mentalità a cui Sara ha detto “NO!”, così come aveva detto “No” al capitalismo e alla distruzione della natura.
Possiamo immaginare cosa proverebbe in questi giorno di fronte all’incendio sistematico dei suoi boschi a Dersim, ridotti in cenere dall’odio di stato, un odio che si riversa anche sui luoghi da cui si cerca di allontanare i curdi con la forza. Stesso scenario per Afrin, naturalmente, bombardato con armi pesanti di nuova produzione per 58 giorni. Qui i rifugiati interni sono già oltre 150mila.

Nel terzo volume Sara analizza soprattutto il “movimento esterno” (al carcere s’intende), sia la componente guerrigliera che l’enorme partecipazione popolare.
Osserva che rivedendo – dopo la prigione – i primi esponenti, i fondatori, le apparvero in qualche modo “irrigiditi” (soprattutto rispetto ai militanti più giovani che -per esempio – parlavano apertamente della liberazione delle donne) e dopo aver rivisto Ocalan non esitò a contestare tale “rigidità”. Diceva comunque di “sentirsi protetta” dai compagni.
Sara era una persona semplice. Con un carattere deciso, forte, plasmato dall’autodisciplina.
Era un comandante, ma non si poneva come tale. Non aveva il senso del denaro e nemmeno dei documenti di identità. Probabilmente li percepiva come un vincolo. Questo, una volta in Europa, naturalmente poteva costituire un problema.
Dovunque si trovasse (in montagna o in una città) si svegliava alle cinque per allenarsi. Si sentiva in dovere di “essere forte” per poter combattere l’oppressione.
Una volta a Bruxelles (dove gli spazi verdi scarseggiano) entrò alle cinque del mattino nel Parco reale, a quell’ora ovviamente ancora chiuso, scavalcando il cancello per andare a correre. Venne arrestata e non aveva nessun documento, solo un numero di telefono. All’epoca inoltre non parlava il francese. “Andammo immediatamente in caserma per riprenderla – raccontato Ozlem – ma poi lei ha insistito per completare i suoi esercizi. Alla fine riuscimmo ad ottenere dalle guardie il permesso per entrare nel parco”. E questo sarebbe accaduto almeno tre o quattro volte.
Qualcosa del genere succedeva anche sulle montagne dove quando nevica, nevica veramente e non si esce dall’accampamento (anche per il rischio delle valanghe). Ma lei andava ad allenarsi ugualmente. E talvolta si perdeva, come quando “ci mobilitammo in almeno quaranta per rintracciarla. Allora abbiamo emesso un ordine di servizio per cui in caso di serie nevicate non si poteva uscire, nemmeno lei”.
Si era sposata, ma poi vedendo che il matrimonio costituiva un impedimento alla sua lotta aveva lasciato il compagno.
Anche se non ha avuto figli, era comunque “dotata di un forte sentimento di mamma”, quello stesso sentimento che le dava la forza per voler cambiare il mondo in un posto migliore. Nonostante tutto.

Sara è stata colpita per attaccare direttamente la lotta di liberazione, il suo prestigio. Chi l’ha fatta assassinare voleva soprattutto attaccare, affossare in primis il movimento delle donne (con lei sono state uccise altre due compagne) e poi tutto il movimento curdo. Ma il popolo curdo non dimenticano. “Noi, quando qualcuno muore – ha sottolineato l’esponente di UIKI – ci prendiamo la responsabilità del suo operato, portiamo avanti anche il suo lavoro”. Senza mai cadere nel vittimismo, un atteggiamento a cui Sara si era sempre opposta. Il loro assassino è stato arrestato, ma alla scadenza del processo (già rinviato) è morto in carcere. Molto opportunamente, vien da dire. L’anno scorso si è svolta una sessione del Tribunale Permanente dei Popoli (TPP) proprio per denunciare tutti i massacri compiuti dalla Turchia. E si è riunito a Parigi, non a caso.

“Vorrei poi aggiungere – ha continuato Ozlem – che in questi giorni si parla spesso di Idlib. Si ritiene che in questa città, importante nodo di collegamento tra Afrin e Aleppo, siano rintanati ancora migliaia di jihadisti. In gran parte sarebbero quelli costretti ad abbandonare le loro basi precedenti”. Altri starebbero rientrando in Europa (da dove spesso provengono) come ha ammesso l’italiano catturato dalle YPG, dando ulteriore conferma della collaborazione tra governo turco ed esponenti delle milizie jihadiste. Una collaborazione sicuramente proficua per entrambi e di cui si era già a conoscenza da almeno sette anni, anche se i media sembravano volerla ignorare.

Ovviamente la permanenza a Idlib di tali milizie – alleate della Turchia – consente ad Ankara di mantenere il controllo su questo lembo di Siria. Osservo che la stampa italiana ne parla poco.
Tutte queste brigate “rappresentano un serio pericolo – ci ha ricordato Ozlem, aggiungendo che “la resistenza di Afrin era (ed è ancora) di importanza capitale. Qui l’esercito turco e le milizie sue alleate non hanno attaccato soltanto i curdi, ma lo hanno fatto in territorio siriano”. Contravvenendo tra l’altro al diritto internazionale.